“Dottoressa, mi rendo conto che l’anoressia mi ha portato via il tempo e l’energia per fare un sacco di cose che avrei potuto fare. Provo una rabbia immensa.”
Questa è una constatazione che le persone che hanno sofferto di disturbi alimentari, verso la fine del proprio percorso terapeutico, si ritrovano a fare spesso.
“Quanto tempo mi ha portato via, questa malattia” è una riflessione che possiamo fare solo quando ci distanziamo da essa. Ci guardiamo alle spalle e, dopo la sorpresa per essere riuscite a farcela, arriva la rabbia.
“Avrei potuto fare altro, di quegli anni. Avrei potuto godermeli”. E’ normale pensarlo, ed in un certo senso, avete ragione.
Aggiungo una pulce nell’orecchio: e se ci fosse un sistema ed interi rami di mercato che, con la vostra malattia, ci hanno guadagnato?
- Studi condotti in vari paesi dimostrano che l’imposizione di ideali di bellezza bianca e magra influenzano donne e ragazze di tutto il mondo. (Macht, 1999)
- In fatto di DCA, oggi il rapporto tra donne e uomini è di 9 a 1 (Sweeting et al., 2015)
- Quando sono arrabbiate e tristi, le donne tendono a mangiare d’impulso più spesso di quanto non facciano gli uomini. (Chemaly, 2018)
Quale relazione esiste tra disturbi alimentari, diet culture e patriarcato?
Partiamo da questa consapevolezza: una donna che occupa poco spazio, non mangia a sufficienza, spende soldi per dimagrire ed essere canonicamente bella, sta oggettificando il proprio corpo.
Pensate alla prima volta in cui avete notato che il vostro corpo produceva un effetto negli altri.
Erano uomini? Donne?
Chi ve lo fece notare, che quel corpo poteva avere un effetto?
Fu lo sguardo di uno sconosciuto per strada quando avevate dodici, tredici anni, o meno?
Fu il commento di vostra madre, vostro padre, vostra zia o vostro nonno di fronte alla gonna che avevate deciso di indossare?
O magari fu qualcosa di più indiretto, legato al modo in cui mangiate, parlate (a voce troppo alta?), camminate?
Ogni donna ha momenti precisi della propria esistenza in cui nota l’effetto del proprio corpo sugli altri e cerca di porvi rimedio. Solitamente, cerchiamo di porvi rimedio per difetto: cerchiamo di occupare meno spazio con la nostra postura, abbassiamo la voce, mangiamo con compostezza o fingiamo di non avere fame, perché “mangiare come un uomo” non è bello da vedere.
La particolarità di tutti questi momenti è che non stiamo agendo come soggetti, ma come oggetti. Dimentichiamo cosa stiamo provando, perché siamo estremamente attente e focalizzate su ciò che provano gli altri guardandoci.
L’auto-oggettificazione è un meccanismo di vigilanza su come appare il proprio corpo agli altri e su come siamo in confronto ad altre donne e agli ideali di bellezza (Chemaly, 2018)
Il corpo viene allora visto disgregato in molti pezzi (pancia, gambe, braccia, bocca, sedere…) che possono essere considerate più o meno belle e adeguate. Nei DCA questo processo è talmente evidente che ogni parte del corpo viene investita da un’attenzione minuziosa e ossessiva.
La diet culture trae enormi profitti da questo tipo di attenzione, e lo incoraggia continuamente. Ne siamo completamente immersi ed immerse.
La diet culture ci parla dalla tv, a inizio maggio, dicendo: “Pronta per la prova costume?”.
La diet culture ci sussurra “come sei dimagrita” come fosse un complimento.
La diet culture ci chiede di rimanere in forma, di non lasciarci andare, e fa equivalere il benessere e la salute fisica all’estetica della magrezza.
Ma soprattutto, la diet culture ci fa a pezzi. Esattamente come ha fatto lo sguardo di chi ha soppesato, valutato e discriminato l’esteriorità del nostro corpo, esercitando un’enorme pressione affinché la modificassimo, e desiderassimo essere diverse.
“Vorrei cambiare tutto del mio corpo. I miei fianchi sono troppo larghi, le cosce troppo flaccide, il mio seno è troppo piccolo. Sa che a volte vorrei tagliarmi via dei pezzi?”
Se ci considerassimo soggetti, invece, passeremmo più tempo a curare il nostro benessere psicofisico e ricercheremmo il piacere per noi stessə.
Saremmo quindi più potenti e autodeterminate.
Sì ma quindi i DCA cosa c’entrano con la società patriarcale?
oggettificare il corpo femminile significa sottrargli potere decisionale e di azione, ridurlo a merce di scambio, e quindi controllarlo. Questo tipo di controllo è coerente con le regole patriarcali, ovvero “il tuo valore in quanto donna non è assoluto, ma è relativo a come ti vesti, come ti trucchi, come camuffi gli inevitabili difetti” (Blasi, 2018).
Il nostro valore, insomma, pare sia tutto nel considerarsi degne di sguardo, o meno.
Esiste un’alternativa?
Certamente si può guarire dai disturbi alimentari, così come si può guarire dalla grassofobia, ovvero la tendenza a considerare il corpo grasso come qualcosa di intrinsecamente sbagliato. Si può combattere la diet culture che ci vuole magre e che fa equivalere il concetto di magrezza a quello di salute. Tuttavia, è un processo lungo e a mio parere la guarigione dai DCA non può prescindere dalla decostruzione di determinati standard di valutazione che tutti e tutte abbiamo. Allora, vediamola così: avere un disturbo alimentare ed intraprendere una psicoterapia per guarire da esso può essere un’occasione per ritrovarsi, una volta in recovery, più consapevoli di tutte le trappole che la diet culture e la grassofobia introducono di nascosto nelle nostre esistenze.
I disturbi alimentari ci possono distruggere e uccidere; ma grazie al processo di guarigione, possiamo avere una marcia in più per comprendere il danno che una certa visione del corpo femminile provoca alle singole persone e alla società, e possiamo farci
allora portatrici e portatori di una cultura diversa: una in cui i corpi rimangano interi, e non fatti a pezzi.
Trovate i riferimenti bibliografici di cui sopra nei seguenti libri:
Blasi, G. (2018). “Manuale per ragazze rivoluzionarie”. Rizzoli.
Chemali, S. (2018). “La rabbia ti fa bella”. Harper Collins.
Autrice dell’articolo - Camilla Hennig, psicologa e psicoterapeuta cognitivista e EMDR
IG: Camillahennig.psi
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